Nel corso degli ultimi settant’anni, il processo di specificazione dei diritti umani ha senza dubbio determinato, sul piano internazionale e, di conseguenza, sul piano interno, un notevole accrescimento di tutela verso quelle categorie di persone la cui soggettività giuridica, sebbene formalmente riconosciuta, ha stentato a ricevere adeguata protezione per motivi storici, sociali o culturali. Tale processo ha avuto il pregio, almeno sul piano teorico, di garantire a tutti e a ciascuno «ciò la cui privazione costituisce un grande affronto alla giustizia, ciò che è dovuto ad ogni essere umano semplicemente in quanto umano». In questo quadro può ascriversi certamente anche la condizione giuridica della donna, la cui completa realizzazione si è scontrata – e continua a scontrarsi – a vari livelli, con avversi tentativi di misconoscimento e sopraffazione, volti ad acuirne lo stato di marginalizzazione e vulnerabilità. Tuttavia, è sin da subito necessario segnalare che, a differenza di ciò che attiene ad altre categorie di soggetti definiti “vulnerabili” - si pensi, tra tutti, alle persone di età minore o alle persone disabili - il concetto di vulnerabilità in relazione alla donna assume connotati molto differenti: invero, se la vulnerabilità da cui è caratterizzato un minore o un anziano è determinata da un fattore di tipo biologico (appunto l’età), e se quella relativa a un disabile è determinata da un fattore di tipo contingente (il contesto), quella relativa alla donna si presenta come una vulnerabilità di tipo “patogeno”. Essa, infatti, non sarebbe determinata da una caratteristica intrinseca del soggetto, né da una inadeguatezza del contesto, ma piuttosto dagli effetti di relazioni interpersonali o sociali lesive, oppure di norme e pratiche istituzionali che siano, direttamente o indirettamente, disfunzionali o abusive. A ben vedere, infatti, la maggior parte della normazione internazionale che ha inteso conferire maggiore effettività ai diritti delle donne non ha avuto come fine quello di sottolineare la peculiarità di una loro protezione speciale tout court, quanto, piuttosto, quello di garantire una maggiorata tutela delle stesse, in relazione a specifici censurabili fenomeni, come la discriminazione e, più di tutti, la violenza. Il presente contributo, pertanto, muovendo dalla prospettiva del diritto internazionale, sia globale sia regionale, intende indagare in che modo le normative sui diritti umani introdotte in materia, nonché le differenti pronunce giudiziali e quasi giudiziali, abbiano affrontato la problematica relativa alla violenza contro le donne e se le stesse normative abbiano o meno contribuito a rendere maggiormente effettivo il contrasto al fenomeno sul piano interno. Nello specifico, l’attenzione si poserà sull’impatto di due convenzioni, in particolare la convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna del 1979 e la convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del 2011, nonché sull’analisi di alcune pronunce del Comitato CEDAW e della Corte EDU, in cui i due organismi, stante la diversità di prerogative e funzioni, hanno conferito sostanza ai concetti di violenza domestica e di genere. In seguito, si precederà, a valutare l’incidenza che le normative e la giurisprudenza internazionale hanno avuto nel contesto italiano, al fine di verificare se le iniziative intraprese a livello interno abbiano in qualche misura contribuito a limitare il numero degli episodi di violenza di genere. Al termine del lavoro, sarà più agevole comprendere se l’attuale sistema di tutela multilivello risulti o meno adeguato nel contrasto a questo complesso fenomeno o se sia necessario, e in che modo, implementarlo.

Violenza contro le donne e limiti delle convenzioni internazionali: solo una questione di diritti?

Lorubbio, Vincenzo
2022-01-01

Abstract

Nel corso degli ultimi settant’anni, il processo di specificazione dei diritti umani ha senza dubbio determinato, sul piano internazionale e, di conseguenza, sul piano interno, un notevole accrescimento di tutela verso quelle categorie di persone la cui soggettività giuridica, sebbene formalmente riconosciuta, ha stentato a ricevere adeguata protezione per motivi storici, sociali o culturali. Tale processo ha avuto il pregio, almeno sul piano teorico, di garantire a tutti e a ciascuno «ciò la cui privazione costituisce un grande affronto alla giustizia, ciò che è dovuto ad ogni essere umano semplicemente in quanto umano». In questo quadro può ascriversi certamente anche la condizione giuridica della donna, la cui completa realizzazione si è scontrata – e continua a scontrarsi – a vari livelli, con avversi tentativi di misconoscimento e sopraffazione, volti ad acuirne lo stato di marginalizzazione e vulnerabilità. Tuttavia, è sin da subito necessario segnalare che, a differenza di ciò che attiene ad altre categorie di soggetti definiti “vulnerabili” - si pensi, tra tutti, alle persone di età minore o alle persone disabili - il concetto di vulnerabilità in relazione alla donna assume connotati molto differenti: invero, se la vulnerabilità da cui è caratterizzato un minore o un anziano è determinata da un fattore di tipo biologico (appunto l’età), e se quella relativa a un disabile è determinata da un fattore di tipo contingente (il contesto), quella relativa alla donna si presenta come una vulnerabilità di tipo “patogeno”. Essa, infatti, non sarebbe determinata da una caratteristica intrinseca del soggetto, né da una inadeguatezza del contesto, ma piuttosto dagli effetti di relazioni interpersonali o sociali lesive, oppure di norme e pratiche istituzionali che siano, direttamente o indirettamente, disfunzionali o abusive. A ben vedere, infatti, la maggior parte della normazione internazionale che ha inteso conferire maggiore effettività ai diritti delle donne non ha avuto come fine quello di sottolineare la peculiarità di una loro protezione speciale tout court, quanto, piuttosto, quello di garantire una maggiorata tutela delle stesse, in relazione a specifici censurabili fenomeni, come la discriminazione e, più di tutti, la violenza. Il presente contributo, pertanto, muovendo dalla prospettiva del diritto internazionale, sia globale sia regionale, intende indagare in che modo le normative sui diritti umani introdotte in materia, nonché le differenti pronunce giudiziali e quasi giudiziali, abbiano affrontato la problematica relativa alla violenza contro le donne e se le stesse normative abbiano o meno contribuito a rendere maggiormente effettivo il contrasto al fenomeno sul piano interno. Nello specifico, l’attenzione si poserà sull’impatto di due convenzioni, in particolare la convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna del 1979 e la convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del 2011, nonché sull’analisi di alcune pronunce del Comitato CEDAW e della Corte EDU, in cui i due organismi, stante la diversità di prerogative e funzioni, hanno conferito sostanza ai concetti di violenza domestica e di genere. In seguito, si precederà, a valutare l’incidenza che le normative e la giurisprudenza internazionale hanno avuto nel contesto italiano, al fine di verificare se le iniziative intraprese a livello interno abbiano in qualche misura contribuito a limitare il numero degli episodi di violenza di genere. Al termine del lavoro, sarà più agevole comprendere se l’attuale sistema di tutela multilivello risulti o meno adeguato nel contrasto a questo complesso fenomeno o se sia necessario, e in che modo, implementarlo.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11587/489405
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