Il canto XXXI dell’Inferno introduce l’esperienza moralmente piú dura e drammatica della prima parte del viaggio dantesco. Infatti, Dante e Virgilio dànno ormai «il dosso al misero vallone» di Malebolge e si accingono ad affrontare la discesa «nel fondo d’ogne reo», cioè nel nono e ultimo cerchio, dove sono puniti i traditori e al centro del quale si trova confitto Lucifero. Qui, però, il movimento subisce un brusco cambiamento di ritmo in relazione allo sproporzionato aggravarsi della colpa. Se fino a questo momento si digradava, per quanto in maniera sempre accidentata e impegnativa, da un cerchio all’altro, ora occorre compiere un salto, che costringe il pellegrino e il poeta ad appellarsi a tutte le sue risorse morali e intellettuali. Non è certo la prima volta che Dante sta di fronte ad un passo decisivo, e mostra di avere paura. Gli era già accaduto, per esempio, davanti alla porta infernale e davanti alle mura della città di Dite. Ma in ogni occasione Virgilio gli era stato accanto, per confortarlo e assisterlo. E anche adesso – anzi, adesso piú che mai – il superamento di questa prova difficile e paurosa è affidato alla saggezza della sua guida. Volgendo decisamente le spalle al sordido, insidioso mondo della violenza e della frode, si chiude, dunque, un’altra fase del viaggio e se ne apre una nuova e piú ardua. La ragione qui deve incominciare ad armarsi della fortezza necessaria non solo ad acquisire la conoscenza della colpa piú grave, ma soprattutto a superare vittoriosamente il confronto diretto con colui che ricapitola e racchiude in sé tutto il male del «doloroso regno». In questo canto, Dante incontra i Giganti, coloro che, spinti da smodata superbia, avevano osato sfidare Giove e da lui erano stati vinti: e tali il poeta li rappresenta, con evidenti i segni di una irrimediabile sconfitta e della conseguente condanna all’impotenza. Già tanto forti e ardite da farsi strumento dell’empia volontà di muovere guerra al cielo, le loro braccia ora sono immobili, inermi, pesantemente abbandonate «giú» lungo i fianchi. Lodevole, perciò, la decisione della Natura, figlia di Dio, di non generare piú una stirpe di cosí pericolosi guerrieri, contro la cui forza distruttrice non c’è difesa, in quanto al «mal volere e a la possa» i giganti uniscono – e qui sta la sostanziale differenza morale e la gravità della minaccia da essi impersonata – l’«argomento de la mente», che un po’ tutti i commentatori hanno spiegato in maniera forse troppo letterale nel senso di ‘strumento, forza o mezzo della ragione, dell’intelletto’. Riferita, però, a personaggi che simboleggiano la superbia, la ribellione e il tradimento – personaggi, cioè, che hanno innaturalmente usato la loro intelligenza a fini di inganno –, l’espressione sfuma nel significato estensivo di ‘astuzia’, ‘malizia’. «Mal volere», «possa» e «argomento de la mente», dunque: tre forze connotative anche del diavolo in Purg., V 112-14, dove è detto che egli «Giunse quel mal voler che pur mal chiede / con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento / per la virtú che sua natura diede», documentando ulteriormente – se ve ne fosse bisogno – lo stretto legame già evidenziato con Lucifero. Pertanto, nella loro grandezza materiale, inerte e inespressiva, i giganti si propongono come la piú efficace e tragica figura della riduzione dell’uomo che tanto presume di sé da volersi fare eguale a Dio, preannunciando i tratti essenziali di un mondo terribile, nel quale è spenta definitivamente ogni luce di umanità e di intelligenza.

«L'argomento de la mente», ovvero la malizia dei giganti. Lettura del XXXI canto dellInferno

MARZO, Antonio
2006-01-01

Abstract

Il canto XXXI dell’Inferno introduce l’esperienza moralmente piú dura e drammatica della prima parte del viaggio dantesco. Infatti, Dante e Virgilio dànno ormai «il dosso al misero vallone» di Malebolge e si accingono ad affrontare la discesa «nel fondo d’ogne reo», cioè nel nono e ultimo cerchio, dove sono puniti i traditori e al centro del quale si trova confitto Lucifero. Qui, però, il movimento subisce un brusco cambiamento di ritmo in relazione allo sproporzionato aggravarsi della colpa. Se fino a questo momento si digradava, per quanto in maniera sempre accidentata e impegnativa, da un cerchio all’altro, ora occorre compiere un salto, che costringe il pellegrino e il poeta ad appellarsi a tutte le sue risorse morali e intellettuali. Non è certo la prima volta che Dante sta di fronte ad un passo decisivo, e mostra di avere paura. Gli era già accaduto, per esempio, davanti alla porta infernale e davanti alle mura della città di Dite. Ma in ogni occasione Virgilio gli era stato accanto, per confortarlo e assisterlo. E anche adesso – anzi, adesso piú che mai – il superamento di questa prova difficile e paurosa è affidato alla saggezza della sua guida. Volgendo decisamente le spalle al sordido, insidioso mondo della violenza e della frode, si chiude, dunque, un’altra fase del viaggio e se ne apre una nuova e piú ardua. La ragione qui deve incominciare ad armarsi della fortezza necessaria non solo ad acquisire la conoscenza della colpa piú grave, ma soprattutto a superare vittoriosamente il confronto diretto con colui che ricapitola e racchiude in sé tutto il male del «doloroso regno». In questo canto, Dante incontra i Giganti, coloro che, spinti da smodata superbia, avevano osato sfidare Giove e da lui erano stati vinti: e tali il poeta li rappresenta, con evidenti i segni di una irrimediabile sconfitta e della conseguente condanna all’impotenza. Già tanto forti e ardite da farsi strumento dell’empia volontà di muovere guerra al cielo, le loro braccia ora sono immobili, inermi, pesantemente abbandonate «giú» lungo i fianchi. Lodevole, perciò, la decisione della Natura, figlia di Dio, di non generare piú una stirpe di cosí pericolosi guerrieri, contro la cui forza distruttrice non c’è difesa, in quanto al «mal volere e a la possa» i giganti uniscono – e qui sta la sostanziale differenza morale e la gravità della minaccia da essi impersonata – l’«argomento de la mente», che un po’ tutti i commentatori hanno spiegato in maniera forse troppo letterale nel senso di ‘strumento, forza o mezzo della ragione, dell’intelletto’. Riferita, però, a personaggi che simboleggiano la superbia, la ribellione e il tradimento – personaggi, cioè, che hanno innaturalmente usato la loro intelligenza a fini di inganno –, l’espressione sfuma nel significato estensivo di ‘astuzia’, ‘malizia’. «Mal volere», «possa» e «argomento de la mente», dunque: tre forze connotative anche del diavolo in Purg., V 112-14, dove è detto che egli «Giunse quel mal voler che pur mal chiede / con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento / per la virtú che sua natura diede», documentando ulteriormente – se ve ne fosse bisogno – lo stretto legame già evidenziato con Lucifero. Pertanto, nella loro grandezza materiale, inerte e inespressiva, i giganti si propongono come la piú efficace e tragica figura della riduzione dell’uomo che tanto presume di sé da volersi fare eguale a Dio, preannunciando i tratti essenziali di un mondo terribile, nel quale è spenta definitivamente ogni luce di umanità e di intelligenza.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11587/332612
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