Le separazioni e i divorzi, oggi, sono situazioni molto diffuse. In maniera parallela dagli anni settanta in poi si è registrato un aumento considerevole di dispute legate all’affidamento dei figli. Al fenomeno hanno certamente contribuito in maniera decisiva due fattori, ossia la sostituzione del “principio della tenera età” con il “principio dell’interesse prevalente del bambino” e il diffondersi della prassi di affidamento congiunto. Da allora i tribunali hanno cominciato ad ignorare il sesso del genitore e a valutare esclusivamente le capacità genitoriali, attraverso la richiesta ai professionisti del settore psicologico di consulenze tecniche mirate. Con il concetto di “interesse del minore” il bambino guadagna il centro dell’attenzione, una condizione da cui trarre soltanto vantaggi per la sua crescita. L’obiettivo della consulenza appare allora quello di fornire conoscenze specialistiche che permettano una migliore osservazione e comprensione delle dinamiche familiari e dei bisogni espressi dal bambino. È nel clima infuocato che contraddistingue le battaglie legali per l’affidamento dei figli che è stato possibile osservare e definire un quadro, sino ad allora trascurato, di comportamenti e atteggiamenti messi in atto dai bambini oggetto di contesa. In un articolo intitolato “Recent trends in divorce and custody litigation” pubblicato nel 1985, lo psichiatra americano Richard Gardner introduce il termine “Sindrome da Alienazione Parentale” (SAP) (“Parental Alienation Syndrome”) per indicare una risposta peculiare del sistema familiare nelle situazioni di separazione giudiziaria1. In questo articolo egli descrive i comportamenti e gli atteggiamenti di alcuni minori che appaiono allineati con uno dei due genitori e attivamente coinvolti in una campagna di denigrazione, ingiustificata o esagerata, nei confronti dell’altro genitore. Tale pattern di comportamenti e atteggiamenti messi in atto dal bambino sarebbero il frutto non solo di una “programmazione” (“programming”) o lavaggio del cervello (“brainwashing”) da parte di un genitore contro l’altro ex-coniuge, ma anche, e soprattutto, di contributi attivi dello stesso bambino che fornirebbe sostegno al comportamento del genitore alienante.

LA SINDROME DA ALIENAZIONE PARENTALE

GRECO, Oronzo Antonio;
2007-01-01

Abstract

Le separazioni e i divorzi, oggi, sono situazioni molto diffuse. In maniera parallela dagli anni settanta in poi si è registrato un aumento considerevole di dispute legate all’affidamento dei figli. Al fenomeno hanno certamente contribuito in maniera decisiva due fattori, ossia la sostituzione del “principio della tenera età” con il “principio dell’interesse prevalente del bambino” e il diffondersi della prassi di affidamento congiunto. Da allora i tribunali hanno cominciato ad ignorare il sesso del genitore e a valutare esclusivamente le capacità genitoriali, attraverso la richiesta ai professionisti del settore psicologico di consulenze tecniche mirate. Con il concetto di “interesse del minore” il bambino guadagna il centro dell’attenzione, una condizione da cui trarre soltanto vantaggi per la sua crescita. L’obiettivo della consulenza appare allora quello di fornire conoscenze specialistiche che permettano una migliore osservazione e comprensione delle dinamiche familiari e dei bisogni espressi dal bambino. È nel clima infuocato che contraddistingue le battaglie legali per l’affidamento dei figli che è stato possibile osservare e definire un quadro, sino ad allora trascurato, di comportamenti e atteggiamenti messi in atto dai bambini oggetto di contesa. In un articolo intitolato “Recent trends in divorce and custody litigation” pubblicato nel 1985, lo psichiatra americano Richard Gardner introduce il termine “Sindrome da Alienazione Parentale” (SAP) (“Parental Alienation Syndrome”) per indicare una risposta peculiare del sistema familiare nelle situazioni di separazione giudiziaria1. In questo articolo egli descrive i comportamenti e gli atteggiamenti di alcuni minori che appaiono allineati con uno dei due genitori e attivamente coinvolti in una campagna di denigrazione, ingiustificata o esagerata, nei confronti dell’altro genitore. Tale pattern di comportamenti e atteggiamenti messi in atto dal bambino sarebbero il frutto non solo di una “programmazione” (“programming”) o lavaggio del cervello (“brainwashing”) da parte di un genitore contro l’altro ex-coniuge, ma anche, e soprattutto, di contributi attivi dello stesso bambino che fornirebbe sostegno al comportamento del genitore alienante.
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