L’obiettivo fondamentale del lavoro è di sperimentare la «disarticolazione», nel caso specifico dei Caracciolo-de’Sangro, del cliché storiografico che individua nella ruralità, intesa come l’espressione inequivocabile di certi retaggi feudali, il carattere predominante o, peggio, unico della proprietà immobiliare, delle attività economiche e dei rapporti di produzione dell’aristocrazia meridionale otto-novecentesca. In altri termini, è un tentativo di vagliare le reali capacità interpretative del tradizionale modello economico-sociale aristocratico, incentrato esclusivamente sul dato rustico-fondiario, saggiandone l’intima coerenza alla luce delle concrete funzioni economiche e sociali (di solito trascurate) di un altro elemento che partecipa alla composizione dei patrimoni immobiliari nobiliari, ossia l’insieme dei “fabbricati” integrati nel tessuto urbano dei centri abitati (originariamente o in seguito a processi di conurbazione) e intesi nell’accezione ampia di costruzioni destinate ad uso di abitazioni civili o comunque adatte ad accogliere uffici pubblici e pubbliche amministrazioni (case, palazzi, ville, castelli, ecc.) e di edifici in cui si svolgono attività produttive (magazzini, botteghe, locande, stabilimenti, ecc.). L’ipotesi di partenza è che sebbene, in generale, la proprietà immobiliare urbana intervenga, percentualmente e in valore assoluto, come quota marginale (e perciò trascurata) nella formazione del valore venale complessivo dei patrimoni dell’aristocrazia terriera, essa meriti in ogni caso di essere analizzata, al di là del mero dato quantitativo, per le sue possibili relazioni qualitative, magari non lineari e diacronicamente discontinue, con una serie di elementi senz’altro utili ai fini di una più circostanziata ricostruzione dei tratti socio-economici dei gruppi nobiliari meridionali in età contemporanea: il reddito monetario, la produttività e le forme e strategie di controllo sociale.

Non solo terra. I beni urbani dei duchi di Martina tra Otto e Novecento

ROMANO, Michele
2008-01-01

Abstract

L’obiettivo fondamentale del lavoro è di sperimentare la «disarticolazione», nel caso specifico dei Caracciolo-de’Sangro, del cliché storiografico che individua nella ruralità, intesa come l’espressione inequivocabile di certi retaggi feudali, il carattere predominante o, peggio, unico della proprietà immobiliare, delle attività economiche e dei rapporti di produzione dell’aristocrazia meridionale otto-novecentesca. In altri termini, è un tentativo di vagliare le reali capacità interpretative del tradizionale modello economico-sociale aristocratico, incentrato esclusivamente sul dato rustico-fondiario, saggiandone l’intima coerenza alla luce delle concrete funzioni economiche e sociali (di solito trascurate) di un altro elemento che partecipa alla composizione dei patrimoni immobiliari nobiliari, ossia l’insieme dei “fabbricati” integrati nel tessuto urbano dei centri abitati (originariamente o in seguito a processi di conurbazione) e intesi nell’accezione ampia di costruzioni destinate ad uso di abitazioni civili o comunque adatte ad accogliere uffici pubblici e pubbliche amministrazioni (case, palazzi, ville, castelli, ecc.) e di edifici in cui si svolgono attività produttive (magazzini, botteghe, locande, stabilimenti, ecc.). L’ipotesi di partenza è che sebbene, in generale, la proprietà immobiliare urbana intervenga, percentualmente e in valore assoluto, come quota marginale (e perciò trascurata) nella formazione del valore venale complessivo dei patrimoni dell’aristocrazia terriera, essa meriti in ogni caso di essere analizzata, al di là del mero dato quantitativo, per le sue possibili relazioni qualitative, magari non lineari e diacronicamente discontinue, con una serie di elementi senz’altro utili ai fini di una più circostanziata ricostruzione dei tratti socio-economici dei gruppi nobiliari meridionali in età contemporanea: il reddito monetario, la produttività e le forme e strategie di controllo sociale.
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