La tesi di questo saggio è che il pensiero di Ludwig Wittgenstein, che ha scritto poco o nulla su temi prettamente politici, possa essere interpretato in modo tale da far emergere implicitamente una concezione libertaria della vita comunitaria, contrariamente al mainstream accademico che ha visto nel filosofo austriaco una sorta di campione del conservatorismo. Questo implicito e particolare “libertarismo” può convivere, quasi paradossalmente, anche con una posizione politica conservatrice: se essere “conservatore”, nell’accezione comune, significa adottare una prassi di vita orientata a concetti cardine come “uso”, “comportamento”, “istituzione”, di “tradizione”, “pratica”, “tecnica”, “accordo”, generando l’idea che questa possa esser “cieca” (blind), nel senso di autogiustificantesi (se si tentasse infatti giustificarla si cadrebbe in un regressus ad infinitum), allora al Nostro potrebbe essere ascritta una posizione conservatrice, visto la sua diffidenza nei confronti di ogni fondazione assoluta che non sia quella che si manifesta (contingentemente) nel tempo presente e di ogni teoria critica della politica che si affidi a principi generali. In On Being Conservative, Michael Oakeshott ritiene che “conservative conduct does not readily provoke articulation in the idiom of general idea” (Oakeshott, 2006, p. 77), sicché non può esistere un credo o una dottrina del conservatorismo; mentre, al contrario, un’autentica condotta conservatrice si realizza in una disposizione (disposition) “to think and behave in certain manners” (ibidem). Questa è però solo una faccia della medaglia. Come si tenterà di mostrare nella parte conclusiva di questo saggio, ci sono, nel presunto distillato politico del pensiero di Wittgenstein, tutti i presupposti affinché nozioni cardine del libertarismo quali “cambiamento”, “autonomia”, “critica” e “autocritica” possano trovare la loro adeguata collocazione.

Per una lettura non conservatrice del pensiero di Ludwig Wittgenstein

Giorgio Rizzo
2017-01-01

Abstract

La tesi di questo saggio è che il pensiero di Ludwig Wittgenstein, che ha scritto poco o nulla su temi prettamente politici, possa essere interpretato in modo tale da far emergere implicitamente una concezione libertaria della vita comunitaria, contrariamente al mainstream accademico che ha visto nel filosofo austriaco una sorta di campione del conservatorismo. Questo implicito e particolare “libertarismo” può convivere, quasi paradossalmente, anche con una posizione politica conservatrice: se essere “conservatore”, nell’accezione comune, significa adottare una prassi di vita orientata a concetti cardine come “uso”, “comportamento”, “istituzione”, di “tradizione”, “pratica”, “tecnica”, “accordo”, generando l’idea che questa possa esser “cieca” (blind), nel senso di autogiustificantesi (se si tentasse infatti giustificarla si cadrebbe in un regressus ad infinitum), allora al Nostro potrebbe essere ascritta una posizione conservatrice, visto la sua diffidenza nei confronti di ogni fondazione assoluta che non sia quella che si manifesta (contingentemente) nel tempo presente e di ogni teoria critica della politica che si affidi a principi generali. In On Being Conservative, Michael Oakeshott ritiene che “conservative conduct does not readily provoke articulation in the idiom of general idea” (Oakeshott, 2006, p. 77), sicché non può esistere un credo o una dottrina del conservatorismo; mentre, al contrario, un’autentica condotta conservatrice si realizza in una disposizione (disposition) “to think and behave in certain manners” (ibidem). Questa è però solo una faccia della medaglia. Come si tenterà di mostrare nella parte conclusiva di questo saggio, ci sono, nel presunto distillato politico del pensiero di Wittgenstein, tutti i presupposti affinché nozioni cardine del libertarismo quali “cambiamento”, “autonomia”, “critica” e “autocritica” possano trovare la loro adeguata collocazione.
2017
978-88-6760-491-3
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