La vicenda normativa che Fabiana Di Porto ricostruisce in prospettiva sistematica e insieme con vigile attenzione ai profili effettuali), rappresenta l’approdo di un lungo, storico percorso che ha registrato, negli ultimi due decenni, una rapida accelerazione. Un percorso che parte da una terra lontana dalla normativa pubblicistica. Parte dal contratto tra privati, e più precisamente dalle ‘trattative’: la sede in cui la disclosure emerge come pilastro centrale dei doveri di ‘correttezza’, ossia di buona fede in senso oggettivo, dunque, pure, come ‘dovere di protezione’ (Schutzpflicht) delle legittime aspettative della controparte. Tutto ciò è troppo noto per insistervi: se non per sottolineare il dato/dogma (cui mi riallaccerò poco più avanti) della parità delle parti, che fonda la tradizionale visione civilistica, della libertà contrattuale. Visione nella quale ha spazio il riconoscimento di situazioni di asimmetria di potere, e quindi di libertà, come nei cc.dd. contratti di massa. Un’asimmetria concentrata, tuttavia, sul profilo dell’informazione come ‘avvertenza’ (della riflessione informativa, potrebbe dirsi) di possibili squilibri: a rimediare ai quali è sufficiente un supplementare richiamo di attenzione su clausole onerose per il contraente individuale, la cui ‘doppia firma’ mette tutti tranquilli, e ‘liberamente’ alla pari. È la prospettiva (vetero) liberista del codice civile, artt. 1341 - 1342. Questa prima tappa del percorso è seguita da una che valorizza, ancora, l’informazione come fattore di riequilibrio: ma ora in un’ottica di ‘sostegno’, accrescendo tipi e mole di una informazione ‘di merito’ (e non solo di ‘avvertenza’, come nella prima fase) e vi affianca, sempre nel merito, divieti tout court di imporre (non solo l’obbligo di ‘comunicare’) condizioni ingiustificatamente onerose traducentesi in pratiche commerciali scorrette. È la fase, tipicamente legata all’affermarsi, nel secondo dopoguerra, nei paesi capitalistici avanzati, della cd. economia sociale di mercato (dall’America di Frank Delano Roosevelt alla Germania di Ludwig Erhard, all’Italia del ‘miracolo economico’), in cui crescono e si rafforzano le rivendicazioni ‘consumeriste’ (poi ampiamente manipolate) rispetto alla contrattazione di massa, in particolare nei confronti di banche, assicurazioni, produttori di beni di ‘largo consumo’, imprese erogatrici di servizi economici collettivi. È appena il caso di ricordare che il dovere di assicurare una informazione di contenuto, di sostegno, appunto, è certo un corollario saliente di quel comma 2 dell’art. 3 della Costituzione, che demanda alla Repubblica, “per la realizzazione dell’eguaglianza sostanziale, la rimozione degli ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (corsivo mio). Si tratta di una prospettiva indubbiamente più avanzata, pur con vistose lacune, come quella della non equiparazione del subfornitore al consumatore (l’equiparazione fu proposta alla Commissione CEE dal Comitato Consultivo Consumatori della stessa Commissione già a fine anni Ottanta del secolo scorso, sulla base sia della evidente tipica asimmetria di potere negoziale dei subfornitori, sia della altrettanto tipica tendenza di costoro a trasferire sui consumatori/utenti finali, appunto, l’onere delle ‘vessazioni’ cui abbiano dovuto soggiacere. La proposta fu poi ‘bocciata’ per la netta opposizione di UNICE, l’associazione europea delle unioni industriali nazionali). Inoltre, come accennato, il potenziale pro-consumer di questa nuova tappa venne smorzato da due tipi di usi manipolatori della ‘nuova trasparenza’. Da un lato, quello per cui, attraverso una quantità alluvionale e defatigante di informazioni, si dissolve de facto la effettiva capacità critica del cittadino-consumatore-contraente. Profilo, questo, che Fabiana Di Porto felicemente recupera nel disegnare soluzioni proconsumer della regolazione pubblicistica nell’era digitale, del fast thought, ove il tempo ‘per accettare’ brucia quello ‘per riflettere’. Dall’altro, quello dell’uso in funzione di scarico di responsabilità: l’informazione come disclaimer rispetto ai rischi di product o service liability. Nei rapporti con la PA è storicamente il cittadino ad essere stato per primo soggetto ad oneri di disclosure per ‘chiedere’ l’attivazione della PA. Penso ad esempio agli oneri di veridica e completa informazione posti a carico di chi richieda l’autorizzazione alla messa in commercio di farmaci. E penso anche a palesi incoerenze che continuano a quasi cinquant’anni dalla prima legge sulla cd. autocertificazione e a quasi venti dal dpr 445/2000, come l’onere di fornire alla PA dati personali che questa già possiede ex officio. Quando, comunque, la PA diviene soggetto di estesi obblighi informativi verso i cittadini? (Il quando dei fenomeni normativi è spesso altrettanto significativo del quomodo). Ritengo quando la rivendicazione consumerista estese il fronte dai servizi ‘privati’ delle imprese a quelli ‘pubblici’ – entrambi egualmente collettivi – forniti dalla, anzi dalle, pubbliche amministrazioni. (Non mi azzardo ad affermare che questa fase storica dell’economia abbia contribuito al progressivo ridimensionamento della dottrina dell’‘interesse legittimo’). Comunque, di questo si tratta in ultima analisi: il cittadino rivendica parità anche rispetto alla PA: e verso di lui la PA tende a ‘scendere’ al livello delle imprese private contraenti di massa, condividendone la soggezione ad estesi ed articolati oneri informativi – e condividendone altresì l’uso manipolatorio dei medesimi. Lieto fine Sì, ma… ‘Sì’, ovviamente, alla agnizione della parità e della conseguente ‘corrispettività’ di oneri informativi (ovviamente più estesi quelli della PA rispetto a quelli del cittadino, secondo il diverso patrimonio conoscitivo di ciascuno dei soggetti). ‘Ma’, soprattutto rispetto al rischio, già ben evidente, che la tecnologia digitale, e la sua dimensione ‘interattiva’ consentano usi ancor più gravemente manipolatori delle informazioni: questa volta, anche delle informazioni che il cittadino cede – deve cedere, se non vuole estraniarsi (ma perché no?!) dalla nuova socialità dei network. Informazioni che, variamente combinate e ‘profilate’ dalle grandi piattaforme che dominano la rete, e dunque sempre crescenti porzioni della conoscenza, rappresentano il volto economico, culturale e persino personale (si pensi alle preferenze sessuali o politiche) del cittadino. È questa una nuova prospettiva rispetto alla quale si propongono nuove e urgenti istanze di controllo sociale. Alla soluzione non velleitaria delle quali Di Porto contribuisce originalmente, specie là dove addita esigenze sia di semplificazione differenziata delle informazioni top-down, sia di ‘contrattazione sociale’ delle modalità tecnologiche di organizzazione e diffusione dei dati, anche di quelli acquisiti bottom up. ‘Un altro algoritmo è possibile’? Di Porto ritiene di sì, con argomenti che alleviano il pessimismo di noi non-nativi digitali. È certo che questa è una cruciale sfida di oggi e di domani: che se non verrà affrontata negli intelligenti modi progressive proposti da Di Porto, porterà al ‘punto zero’ – in senso proprio – il livello della vita democratica.

La regolazione degli obblighi informativi. Le sfide delle scienze cognitive e dei big data

DI PORTO, Fabiana
2017-01-01

Abstract

La vicenda normativa che Fabiana Di Porto ricostruisce in prospettiva sistematica e insieme con vigile attenzione ai profili effettuali), rappresenta l’approdo di un lungo, storico percorso che ha registrato, negli ultimi due decenni, una rapida accelerazione. Un percorso che parte da una terra lontana dalla normativa pubblicistica. Parte dal contratto tra privati, e più precisamente dalle ‘trattative’: la sede in cui la disclosure emerge come pilastro centrale dei doveri di ‘correttezza’, ossia di buona fede in senso oggettivo, dunque, pure, come ‘dovere di protezione’ (Schutzpflicht) delle legittime aspettative della controparte. Tutto ciò è troppo noto per insistervi: se non per sottolineare il dato/dogma (cui mi riallaccerò poco più avanti) della parità delle parti, che fonda la tradizionale visione civilistica, della libertà contrattuale. Visione nella quale ha spazio il riconoscimento di situazioni di asimmetria di potere, e quindi di libertà, come nei cc.dd. contratti di massa. Un’asimmetria concentrata, tuttavia, sul profilo dell’informazione come ‘avvertenza’ (della riflessione informativa, potrebbe dirsi) di possibili squilibri: a rimediare ai quali è sufficiente un supplementare richiamo di attenzione su clausole onerose per il contraente individuale, la cui ‘doppia firma’ mette tutti tranquilli, e ‘liberamente’ alla pari. È la prospettiva (vetero) liberista del codice civile, artt. 1341 - 1342. Questa prima tappa del percorso è seguita da una che valorizza, ancora, l’informazione come fattore di riequilibrio: ma ora in un’ottica di ‘sostegno’, accrescendo tipi e mole di una informazione ‘di merito’ (e non solo di ‘avvertenza’, come nella prima fase) e vi affianca, sempre nel merito, divieti tout court di imporre (non solo l’obbligo di ‘comunicare’) condizioni ingiustificatamente onerose traducentesi in pratiche commerciali scorrette. È la fase, tipicamente legata all’affermarsi, nel secondo dopoguerra, nei paesi capitalistici avanzati, della cd. economia sociale di mercato (dall’America di Frank Delano Roosevelt alla Germania di Ludwig Erhard, all’Italia del ‘miracolo economico’), in cui crescono e si rafforzano le rivendicazioni ‘consumeriste’ (poi ampiamente manipolate) rispetto alla contrattazione di massa, in particolare nei confronti di banche, assicurazioni, produttori di beni di ‘largo consumo’, imprese erogatrici di servizi economici collettivi. È appena il caso di ricordare che il dovere di assicurare una informazione di contenuto, di sostegno, appunto, è certo un corollario saliente di quel comma 2 dell’art. 3 della Costituzione, che demanda alla Repubblica, “per la realizzazione dell’eguaglianza sostanziale, la rimozione degli ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (corsivo mio). Si tratta di una prospettiva indubbiamente più avanzata, pur con vistose lacune, come quella della non equiparazione del subfornitore al consumatore (l’equiparazione fu proposta alla Commissione CEE dal Comitato Consultivo Consumatori della stessa Commissione già a fine anni Ottanta del secolo scorso, sulla base sia della evidente tipica asimmetria di potere negoziale dei subfornitori, sia della altrettanto tipica tendenza di costoro a trasferire sui consumatori/utenti finali, appunto, l’onere delle ‘vessazioni’ cui abbiano dovuto soggiacere. La proposta fu poi ‘bocciata’ per la netta opposizione di UNICE, l’associazione europea delle unioni industriali nazionali). Inoltre, come accennato, il potenziale pro-consumer di questa nuova tappa venne smorzato da due tipi di usi manipolatori della ‘nuova trasparenza’. Da un lato, quello per cui, attraverso una quantità alluvionale e defatigante di informazioni, si dissolve de facto la effettiva capacità critica del cittadino-consumatore-contraente. Profilo, questo, che Fabiana Di Porto felicemente recupera nel disegnare soluzioni proconsumer della regolazione pubblicistica nell’era digitale, del fast thought, ove il tempo ‘per accettare’ brucia quello ‘per riflettere’. Dall’altro, quello dell’uso in funzione di scarico di responsabilità: l’informazione come disclaimer rispetto ai rischi di product o service liability. Nei rapporti con la PA è storicamente il cittadino ad essere stato per primo soggetto ad oneri di disclosure per ‘chiedere’ l’attivazione della PA. Penso ad esempio agli oneri di veridica e completa informazione posti a carico di chi richieda l’autorizzazione alla messa in commercio di farmaci. E penso anche a palesi incoerenze che continuano a quasi cinquant’anni dalla prima legge sulla cd. autocertificazione e a quasi venti dal dpr 445/2000, come l’onere di fornire alla PA dati personali che questa già possiede ex officio. Quando, comunque, la PA diviene soggetto di estesi obblighi informativi verso i cittadini? (Il quando dei fenomeni normativi è spesso altrettanto significativo del quomodo). Ritengo quando la rivendicazione consumerista estese il fronte dai servizi ‘privati’ delle imprese a quelli ‘pubblici’ – entrambi egualmente collettivi – forniti dalla, anzi dalle, pubbliche amministrazioni. (Non mi azzardo ad affermare che questa fase storica dell’economia abbia contribuito al progressivo ridimensionamento della dottrina dell’‘interesse legittimo’). Comunque, di questo si tratta in ultima analisi: il cittadino rivendica parità anche rispetto alla PA: e verso di lui la PA tende a ‘scendere’ al livello delle imprese private contraenti di massa, condividendone la soggezione ad estesi ed articolati oneri informativi – e condividendone altresì l’uso manipolatorio dei medesimi. Lieto fine Sì, ma… ‘Sì’, ovviamente, alla agnizione della parità e della conseguente ‘corrispettività’ di oneri informativi (ovviamente più estesi quelli della PA rispetto a quelli del cittadino, secondo il diverso patrimonio conoscitivo di ciascuno dei soggetti). ‘Ma’, soprattutto rispetto al rischio, già ben evidente, che la tecnologia digitale, e la sua dimensione ‘interattiva’ consentano usi ancor più gravemente manipolatori delle informazioni: questa volta, anche delle informazioni che il cittadino cede – deve cedere, se non vuole estraniarsi (ma perché no?!) dalla nuova socialità dei network. Informazioni che, variamente combinate e ‘profilate’ dalle grandi piattaforme che dominano la rete, e dunque sempre crescenti porzioni della conoscenza, rappresentano il volto economico, culturale e persino personale (si pensi alle preferenze sessuali o politiche) del cittadino. È questa una nuova prospettiva rispetto alla quale si propongono nuove e urgenti istanze di controllo sociale. Alla soluzione non velleitaria delle quali Di Porto contribuisce originalmente, specie là dove addita esigenze sia di semplificazione differenziata delle informazioni top-down, sia di ‘contrattazione sociale’ delle modalità tecnologiche di organizzazione e diffusione dei dati, anche di quelli acquisiti bottom up. ‘Un altro algoritmo è possibile’? Di Porto ritiene di sì, con argomenti che alleviano il pessimismo di noi non-nativi digitali. È certo che questa è una cruciale sfida di oggi e di domani: che se non verrà affrontata negli intelligenti modi progressive proposti da Di Porto, porterà al ‘punto zero’ – in senso proprio – il livello della vita democratica.
2017
9788893910958
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11587/409244
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