L'articolo indaga le vicende della Chiesa Milanese tra la metà del XV secolo e i primi decenni del XVI. La ricerca è incentrato su due concetti fondamentali: da un lato quello della forte ingerenza del potere politico degli Sforza (eredi in questo di un'antica tradizione viscontea) sulla vita della Chiesa milanese; dall’altro quello dell'incidenza, non meno rilevante incidenza, degli interventi della Sede Apostolica e della curia romana, tornata, dopo l’età dello Scisma e dopo la stagione della sfida portata al Papato dal movimento conciliare, a rivendicare con successo un ruolo forte di supervisione e di controllo sulla vita delle diverse Chiese locali, e dunque anche sulla Chiesa milanese. Stretta dunque tra queste due differenti forme di interferenza, che talora poterono anche entrare in competizione tra loro, ma che più spesso trovavano modo di coesistere in un sistema informale di compromesso e di co-governance, la Chiesa ambrosiana, secondo una linea di tendenza che fu peraltro comune alla maggior parte delle realtà ecclesiali della Penisola, venne accentuando la tendenza (già manifestatasi nel corso del XIV secolo) verso la perdita della propria antica tradizione di autonomia, che l’aveva spesso contraddistinta nell’età medievale. Il dato più significativo di questa situazione si ebbe nel vistoso appannamento del ruolo degli arcivescovi, Se nel Duecento e nel Trecento, al tempo del loro grande coinvolgimento nelle lotte del Comune, gli arcivescovi milanesi erano stati dei grandi protagonisti anche sul terreno politico, ed avevano, come tali, alternato momenti in cui si erano ritrovati addirittura costretti all’esilio ad altri in cui la loro posizione era giunta a coincidere con quella di signori di Milano (città a sua volta proiettata, a partire dal Trecento, a diventare la capitale di uno Stato regionale in forte espansione), nel corso del Quattrocento e del primo Cinquecento – e dunque in una fase che attraversò per intero l’età sforzesca – si ebbe invece un deciso affievolimento dell’importanza dell’episcopato: non solo in termini di peso politico, ma anche sul piano più strettamente ecclesiastico e pastorale. Possiamo da questo punto di vista parlare di una vera e propria eclissi dell’autorità arcivescovile, di cui il fenomeno dell’assenteismo e della non-residenza dei presuli (spesso residenti in corte di Roma, oppure impegnati come ufficiali al servizio dello Stato) costituì l’aspetto per molti versi più eclatante e vistoso. In conseguenza di questa situazione, la Chiesa milanese si ritrovò dunque ad attraversare una fase particolare delle propria storia: in cui l’assenza di un’affidabile guida pastorale si tradusse indiscutibilmente in una serie di problemi, di abusi e di disfunzioni (su cui sarebbe successivamente dovuta intervenire con vigore la grande opera del Borromeo); ma anche, per certi versi, una fase di vivacità e di spontaneità, in cui – pur nel quadro di quel duplice condizionamento ducale e papale di cui sopra si diceva – si poterono manifestare esperienze di notevole vivacità e vitalità sul terreno della vita religiosa e spirituale, non meno che sul piano dell’organizzazione ecclesiastica, delle attività di predicazione, e delle iniziative devozionali ed assistenziali.

La Chiesa Ambrosiana e l'eredità sforzesca

SOMAINI, Francesco
2012-01-01

Abstract

L'articolo indaga le vicende della Chiesa Milanese tra la metà del XV secolo e i primi decenni del XVI. La ricerca è incentrato su due concetti fondamentali: da un lato quello della forte ingerenza del potere politico degli Sforza (eredi in questo di un'antica tradizione viscontea) sulla vita della Chiesa milanese; dall’altro quello dell'incidenza, non meno rilevante incidenza, degli interventi della Sede Apostolica e della curia romana, tornata, dopo l’età dello Scisma e dopo la stagione della sfida portata al Papato dal movimento conciliare, a rivendicare con successo un ruolo forte di supervisione e di controllo sulla vita delle diverse Chiese locali, e dunque anche sulla Chiesa milanese. Stretta dunque tra queste due differenti forme di interferenza, che talora poterono anche entrare in competizione tra loro, ma che più spesso trovavano modo di coesistere in un sistema informale di compromesso e di co-governance, la Chiesa ambrosiana, secondo una linea di tendenza che fu peraltro comune alla maggior parte delle realtà ecclesiali della Penisola, venne accentuando la tendenza (già manifestatasi nel corso del XIV secolo) verso la perdita della propria antica tradizione di autonomia, che l’aveva spesso contraddistinta nell’età medievale. Il dato più significativo di questa situazione si ebbe nel vistoso appannamento del ruolo degli arcivescovi, Se nel Duecento e nel Trecento, al tempo del loro grande coinvolgimento nelle lotte del Comune, gli arcivescovi milanesi erano stati dei grandi protagonisti anche sul terreno politico, ed avevano, come tali, alternato momenti in cui si erano ritrovati addirittura costretti all’esilio ad altri in cui la loro posizione era giunta a coincidere con quella di signori di Milano (città a sua volta proiettata, a partire dal Trecento, a diventare la capitale di uno Stato regionale in forte espansione), nel corso del Quattrocento e del primo Cinquecento – e dunque in una fase che attraversò per intero l’età sforzesca – si ebbe invece un deciso affievolimento dell’importanza dell’episcopato: non solo in termini di peso politico, ma anche sul piano più strettamente ecclesiastico e pastorale. Possiamo da questo punto di vista parlare di una vera e propria eclissi dell’autorità arcivescovile, di cui il fenomeno dell’assenteismo e della non-residenza dei presuli (spesso residenti in corte di Roma, oppure impegnati come ufficiali al servizio dello Stato) costituì l’aspetto per molti versi più eclatante e vistoso. In conseguenza di questa situazione, la Chiesa milanese si ritrovò dunque ad attraversare una fase particolare delle propria storia: in cui l’assenza di un’affidabile guida pastorale si tradusse indiscutibilmente in una serie di problemi, di abusi e di disfunzioni (su cui sarebbe successivamente dovuta intervenire con vigore la grande opera del Borromeo); ma anche, per certi versi, una fase di vivacità e di spontaneità, in cui – pur nel quadro di quel duplice condizionamento ducale e papale di cui sopra si diceva – si poterono manifestare esperienze di notevole vivacità e vitalità sul terreno della vita religiosa e spirituale, non meno che sul piano dell’organizzazione ecclesiastica, delle attività di predicazione, e delle iniziative devozionali ed assistenziali.
2012
9788878707269
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11587/374749
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