Il saggio torna sul classico demartiniano La terra del rimorso per riconsiderare l’idea della dimensione mitico-rituale del tarantismo, legata alla definizione di aspetti simbolici “culturalmente condizionati”, che rappresentavano una delle novità metodologiche dell’opera, accanto a quei paralleli etno-folklorici e confronti con gli antecedenti classici già introdotti nelle opere precedenti (in particolare in Morte e pianto rituale). Viene criticata la definizione di “relitti”, “rottami”, “macerie” che per de Martino rappresenterebbero nel tarantismo solo una pallida eco di antichi riti greci, legati in particolare al menadismo dionisiaco e alla sfera coribantica: pur ammettendo una «comune realtà religiosa», lo studioso rinunciava a tracciare la storia «della civiltà religiosa di cui [il tarantismo] è relitto», considerando il fenomeno come una «nuova plasmazione irriducibile ad altro». Ma il confronto col tarantismo campano, poco conosciuto e studiato, e con analoghe tradizioni non solo sarde ma anche calabresi e siciliane, corredato anche da nuove testimonianze sul tarantismo raccolte successivamente al lavoro demartiniano, consente di completare il quadro antropologico riconoscendovi elementi che conducono verso conclusioni in parte diverse da quelle dello studioso napoletano. In particolare si riscontra che paraphernalia e altri aspetti del rituale, che de Martino considerava secondari, godevano invece di piena autonomia simbolica nel tarantismo, nel quale inoltre sussisteva - come emerge ad esempio in certa narrativa salentina di tradizioni mariana - una concezione demonica della taranta non dissimile da analoghi aspetti del dionisismo. La nuova analisi comparativa offre così un sistema di costanti e varianti che, mentre da una parte riconduce il tarantismo alla fenomenologia generale della trance religiosa, evidenzia dall’altra l’emergenza di tematiche e problematiche già pienamente appartenenti al mondo classico, come l’interpretazione demonica della sindrome malinconica e del “colpo di sole”, e gli aspetti non olimpici ma demonici del dionisismo. In un quadro più completo e meglio contestualizzato, la stessa figura di san Paolo come nume tutelare - anch’egli colpito nella carne da un pungolo o pungiglione (Seconda Lettera ai Corinti 12, 7, e Atti degli Apostoli 9, 6, con precedenti veterotestamentari), in una prospettiva comune all’oistros dionisiaco e orfico ma scartata da de Martino - appare non tanto imposta dal clero ma coerente con un processo di cristianizzazione di antiche credenze demoniche, tipologicamente autonomo dalle autorità cattoliche e ben rappresentato nella storia della religiosità popolare e dei suoi sincretismi.

Oltre De Martino. Per una rifondazione degli studi sul tarantismo

SALVATORE, Gianfranco
2000-01-01

Abstract

Il saggio torna sul classico demartiniano La terra del rimorso per riconsiderare l’idea della dimensione mitico-rituale del tarantismo, legata alla definizione di aspetti simbolici “culturalmente condizionati”, che rappresentavano una delle novità metodologiche dell’opera, accanto a quei paralleli etno-folklorici e confronti con gli antecedenti classici già introdotti nelle opere precedenti (in particolare in Morte e pianto rituale). Viene criticata la definizione di “relitti”, “rottami”, “macerie” che per de Martino rappresenterebbero nel tarantismo solo una pallida eco di antichi riti greci, legati in particolare al menadismo dionisiaco e alla sfera coribantica: pur ammettendo una «comune realtà religiosa», lo studioso rinunciava a tracciare la storia «della civiltà religiosa di cui [il tarantismo] è relitto», considerando il fenomeno come una «nuova plasmazione irriducibile ad altro». Ma il confronto col tarantismo campano, poco conosciuto e studiato, e con analoghe tradizioni non solo sarde ma anche calabresi e siciliane, corredato anche da nuove testimonianze sul tarantismo raccolte successivamente al lavoro demartiniano, consente di completare il quadro antropologico riconoscendovi elementi che conducono verso conclusioni in parte diverse da quelle dello studioso napoletano. In particolare si riscontra che paraphernalia e altri aspetti del rituale, che de Martino considerava secondari, godevano invece di piena autonomia simbolica nel tarantismo, nel quale inoltre sussisteva - come emerge ad esempio in certa narrativa salentina di tradizioni mariana - una concezione demonica della taranta non dissimile da analoghi aspetti del dionisismo. La nuova analisi comparativa offre così un sistema di costanti e varianti che, mentre da una parte riconduce il tarantismo alla fenomenologia generale della trance religiosa, evidenzia dall’altra l’emergenza di tematiche e problematiche già pienamente appartenenti al mondo classico, come l’interpretazione demonica della sindrome malinconica e del “colpo di sole”, e gli aspetti non olimpici ma demonici del dionisismo. In un quadro più completo e meglio contestualizzato, la stessa figura di san Paolo come nume tutelare - anch’egli colpito nella carne da un pungolo o pungiglione (Seconda Lettera ai Corinti 12, 7, e Atti degli Apostoli 9, 6, con precedenti veterotestamentari), in una prospettiva comune all’oistros dionisiaco e orfico ma scartata da de Martino - appare non tanto imposta dal clero ma coerente con un processo di cristianizzazione di antiche credenze demoniche, tipologicamente autonomo dalle autorità cattoliche e ben rappresentato nella storia della religiosità popolare e dei suoi sincretismi.
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