L'opera tratta criticamente del diritto come di un gioco collettivo, la cui posta è la creazione delle proprie stesse regole, cioè la produzione dell’ordine sociale. L’analisi antropologica, che costituisce l’angolo visuale della ricerca dell'autore, consente una considerazione prospettica dell’esperienza giuridica occidentale, consente cioè di metterne a fuoco alcune caratteristiche specifiche, che al tempo stesso la identificano e la storicizzano, contestualizzandola e togliendole ogni pretesa di assolutezza. Ma proprio in questo modo può risaltare con più evidenza lo specifico contributo greco-occidentale alla costituzione della “civiltà giuridica”. Tale specificità va individuata nel rapporto attivo e perciò tendenzialmente autonomo tra la collettività e l’assetto sociale. In altri termini, nella società occidentale il rapporto tra istituzioni e norme si pone come un rapporto esplicitamente istituito, e perciò regolamentato da procedure pubbliche e controllabili. Il “gioco” al quale si riferisce l'autore è, dunque, “il gioco delle regole”: gioco estremamente serio e complesso, nel quale s’intrecciano dimensione simbolica e istanza normativa, e dal quale scaturisce l’identità stessa dei soggetti sociali. L'autore mette in gioco il rapporto con l’alterità: “Il diritto fornisce una autorappresentazione (Selbstdarstellung) che consiste nel rappresentare se stesso ‘altro da se stesso’, cioè dal suo puro e semplice rappresentarsi. Il diritto si autorappresenta come altro, e questo è di più di quanto realizzi con la semplice azione del rappresentarsi come dato ab aeterno. […] Solo così il diritto può essere interiorizzato dall’uomo (in una seconda fase, può essere interiorizzato ‘altro da se stesso’), che diviene allora persona fictitia – legal person – nella procedura giuridica. Nel suo semplice autorappresentarsi, l’uomo non sarebbe altro che persona naturalis – natural person. Ma in questo modo la vita sarebbe impossibile per chiunque (Hobbes). […] È in questa artificiosità che si ritrova il carattere istituzionale di diritto e Stato.” È qui espresso chiaramente il carattere socialmente e storicamente istituito del passaggio propriamente moderno dall’autorappresentazione “naturale” o immediata all’autorappresentazione giuridica. Quest’ultima costituisce una forma di autorappresentazione tipicamente occidentale, grazie alla quale l’individuo costituisce la sua identità raffigurandosi come altro da sé, ossia ponendosi come persona giuridica. Una figura altra del medesimo restituisce al medesimo una nuova immagine di sé: in questa vera e propria riflessione speculativa, grazie all’immagine istituita del proprio si costituisce l’identità dei soggetti sociali. Nella modernità, dunque, l’identità, lungi dal costituire un presupposto statico dell’individuo, si risolve in un processo dinamico di alterazione. L'autore individua così il rapporto tra analisi antropologica e studio del diritto. Dal punto di vista antropologico, infatti, ciò che caratterizza l’essere umano è esattamente l’alterazione, la diversità. “Animale condannato a essere sempre diverso”, l’uomo “si ripete solo in questo essere diverso da sé e dagli altri”: le norme giuridiche “tentano di contrastare la diversità”, senza però mai riuscirci del tutto, giacché la diversità “è la condizione dell’essere”. Insomma, è proprio in virtù della sua natura stabilizzante e omologante, che il diritto, come ordine sistematico di norme e istituzioni, svolge una “funzione antropologica”, come suggerisce del resto anche Alain Supiot. Nella sua messa in prospettiva del diritto occidentale moderno, l'autore lo guarda con gli occhi dell’antropologo, cioè con occhi capaci di “vedere come estraneo ciò che è nostro e come nostro ciò che ci era estraneo”. Lo sguardo obliquo di chi riesce a farsi “etnologo della propria società” guida dunque il lavoro dell'autore. L’implicazione squisitamente filosofica di un simile esercizio di pensiero viene in luce in alcune sue pagine dedicate a Wittgenstein, nelle quali la filosofia, cioè l’interrogazione critica del reale, è vista consistere non tanto e non solo nella conoscenza, nella descrizione o nella riflessione del dato, quanto soprattutto nella “capacità di percepire il reale su un fondo di possibilità molto più vasto della concezione usuale”. Insomma, lo sguardo filosofico è certo attratto dall’essere del reale, ma lascia alle scienze lo studio della sua effettiva consistenza: all’interrogazione filosofica, alla sua essenza critica, interessa in primo luogo il significato del reale, cioè il suo poter-essere-altrimenti.

Tractatus ludicus. Antropologia dei fondamenti dell'Occidente giuridico

PALMISANO, Antonio Luigi
2006-01-01

Abstract

L'opera tratta criticamente del diritto come di un gioco collettivo, la cui posta è la creazione delle proprie stesse regole, cioè la produzione dell’ordine sociale. L’analisi antropologica, che costituisce l’angolo visuale della ricerca dell'autore, consente una considerazione prospettica dell’esperienza giuridica occidentale, consente cioè di metterne a fuoco alcune caratteristiche specifiche, che al tempo stesso la identificano e la storicizzano, contestualizzandola e togliendole ogni pretesa di assolutezza. Ma proprio in questo modo può risaltare con più evidenza lo specifico contributo greco-occidentale alla costituzione della “civiltà giuridica”. Tale specificità va individuata nel rapporto attivo e perciò tendenzialmente autonomo tra la collettività e l’assetto sociale. In altri termini, nella società occidentale il rapporto tra istituzioni e norme si pone come un rapporto esplicitamente istituito, e perciò regolamentato da procedure pubbliche e controllabili. Il “gioco” al quale si riferisce l'autore è, dunque, “il gioco delle regole”: gioco estremamente serio e complesso, nel quale s’intrecciano dimensione simbolica e istanza normativa, e dal quale scaturisce l’identità stessa dei soggetti sociali. L'autore mette in gioco il rapporto con l’alterità: “Il diritto fornisce una autorappresentazione (Selbstdarstellung) che consiste nel rappresentare se stesso ‘altro da se stesso’, cioè dal suo puro e semplice rappresentarsi. Il diritto si autorappresenta come altro, e questo è di più di quanto realizzi con la semplice azione del rappresentarsi come dato ab aeterno. […] Solo così il diritto può essere interiorizzato dall’uomo (in una seconda fase, può essere interiorizzato ‘altro da se stesso’), che diviene allora persona fictitia – legal person – nella procedura giuridica. Nel suo semplice autorappresentarsi, l’uomo non sarebbe altro che persona naturalis – natural person. Ma in questo modo la vita sarebbe impossibile per chiunque (Hobbes). […] È in questa artificiosità che si ritrova il carattere istituzionale di diritto e Stato.” È qui espresso chiaramente il carattere socialmente e storicamente istituito del passaggio propriamente moderno dall’autorappresentazione “naturale” o immediata all’autorappresentazione giuridica. Quest’ultima costituisce una forma di autorappresentazione tipicamente occidentale, grazie alla quale l’individuo costituisce la sua identità raffigurandosi come altro da sé, ossia ponendosi come persona giuridica. Una figura altra del medesimo restituisce al medesimo una nuova immagine di sé: in questa vera e propria riflessione speculativa, grazie all’immagine istituita del proprio si costituisce l’identità dei soggetti sociali. Nella modernità, dunque, l’identità, lungi dal costituire un presupposto statico dell’individuo, si risolve in un processo dinamico di alterazione. L'autore individua così il rapporto tra analisi antropologica e studio del diritto. Dal punto di vista antropologico, infatti, ciò che caratterizza l’essere umano è esattamente l’alterazione, la diversità. “Animale condannato a essere sempre diverso”, l’uomo “si ripete solo in questo essere diverso da sé e dagli altri”: le norme giuridiche “tentano di contrastare la diversità”, senza però mai riuscirci del tutto, giacché la diversità “è la condizione dell’essere”. Insomma, è proprio in virtù della sua natura stabilizzante e omologante, che il diritto, come ordine sistematico di norme e istituzioni, svolge una “funzione antropologica”, come suggerisce del resto anche Alain Supiot. Nella sua messa in prospettiva del diritto occidentale moderno, l'autore lo guarda con gli occhi dell’antropologo, cioè con occhi capaci di “vedere come estraneo ciò che è nostro e come nostro ciò che ci era estraneo”. Lo sguardo obliquo di chi riesce a farsi “etnologo della propria società” guida dunque il lavoro dell'autore. L’implicazione squisitamente filosofica di un simile esercizio di pensiero viene in luce in alcune sue pagine dedicate a Wittgenstein, nelle quali la filosofia, cioè l’interrogazione critica del reale, è vista consistere non tanto e non solo nella conoscenza, nella descrizione o nella riflessione del dato, quanto soprattutto nella “capacità di percepire il reale su un fondo di possibilità molto più vasto della concezione usuale”. Insomma, lo sguardo filosofico è certo attratto dall’essere del reale, ma lascia alle scienze lo studio della sua effettiva consistenza: all’interrogazione filosofica, alla sua essenza critica, interessa in primo luogo il significato del reale, cioè il suo poter-essere-altrimenti.
2006
9788895152035
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11587/373095
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