Questa monografia etnografica mette a fuoco la forte identità del gruppo etnico dei Guraghe dell'Etiopia e il loro rapporto con la coltivazione dell'asat, ensete. Nei primi capitoli la coltivazione dell'ensete è definita come specificità fondante dell'identità guraghe e come strategia vincente che, implicando determinati processi ed una determinata struttura familiare, sociale e politica, permette tutt'oggi l'adattamento ai cambiamenti e il mantenimento degli usi e delle radici culturali nonostante le discriminazioni, le migrazioni forzate e la perdita dei terreni, a cui questo gruppo etnico fu sottoposto fin dal XIII secolo. L'ensete, o falso banano, coltivazione dell'altopiano etiope, richiede costante cura, che viene svolta dalle donne e dai bambini, e pesante lavoro periodico concentrato nella stagione secca, da dicembre a febbraio circa, svolto dagli uomini. Sono inoltre sempre le donne, spesso collaborando fra loro, a compiere le lunghe ed elaborate pratiche rituali per rendere commestibile l'ensete. Ciò garantisce una suddivisione abbastanza netta dei compiti all'interno della famiglia, o abarus, del villaggio, enfocha, e addirittura dell'intero clan, detto t'ib, e fa sì che gli uomini durante il resto dell'anno, da marzo a novembre, non abbiano compiti specifici, permettendo loro di spostarsi anche per lunghi periodi, senza che la produzione ne sia compromessa. Si assiste così a migrazioni, per la maggior parte stagionali, verso le città, prima fra tutte Addis Ababa, in cerca di lavori remunerativi, divenuti sempre più necessari poiché la lavorazione dell'ensete è solamente di sussistenza. Queste migrazioni sono quindi legate contemporaneamente sia alla necessità sia all’opportunità di uscire dal villaggio, ma i fano, gli immigrati, mantengono sempre un legame molto forte di solidarietà con la famiglia rimasta in campagna e le rimesse che inviano permettono loro di tornare e di essere sempre ben accolti. Nei capitoli terzo e quinto, Palmisano affronta le tappe del processo migratorio, iniziando dalla storia della regione, col susseguirsi di tentativi di controllo imperiale fino all'invasione amharica del 1889 che ha segnato l'inizio delle deportazioni. Iniziate forzatamente a causa del potere imperiale e delle invasioni cuscitiche, le migrazioni hanno spinto i Guraghe verso l'altipiano etiopico e poi più a nord, in un processo di espansione degli insediamenti, poi trasformatosi nell'attuale processo migratorio, con il mutamento delle dinamiche economiche e statali. Oggi, nella maggior parte, si tratta di spostamenti che originati per vendere la pura forza lavoro, hanno portato ad una sempre maggiore integrazione nella struttura economica, inserendosi nel commercio diretto e nell'importazione, fino ad arrivare a livello nazionale. Palmisano sottolinea poi l'altro punto fondamentale della società guraghe, sempre legato alle dinamiche prodotte dalle migrazioni, cioè il legame con il territorio. L'avere una casa, e quindi un terreno, coincide con la coltivazione e gestione dell'ensete che permette la sussistenza della famiglia stessa, rendendo quindi la “proprietà” di un terreno fondamentale per ogni nucleo familiare, nonostante la proprietà privata non sia concepita come nelle società occidentali: infatti all'estinzione della famiglia che ne ha l'usufrutto, il lotto torna di proprietà del t'ib. Così la città si presenta come un “non-luogo”, mentre è il t'ib stesso, così come lo yejoka (principale consiglio amministrativo e giuridico), ad essere visto come un luogo. Palmisano esplica così la modalità con cui le istituzioni guraghe, essendo istituzioni che ordinano il mondo nello spazio e nel tempo, sono state trasportate nelle città dove i Guraghe sono migrati, rendendole così luoghi abitabili. E' stata poi la capacità di fornire una “risposta flessibile” che ha fatto sì che siano state funzionali anche in quei luoghi così diversi dai luoghi in cui sono stati concepiti. Questa forte appartenenza, aggiunta alla volontà e alla forte determinazione caratteristiche di questo gruppo etnico, ha permesso loro di riprodurre con successo la loro struttura sociale e politica facendoli integrare nel mutato contesto economico, facendo da stabile base per le relazioni col mondo esterno e includendoli nel circuito di mercato e nei processi di costruzione attiva dello Stato. L'esempio più esplicativo portato dall'Autore sulla stabilità di tale struttura e sull'efficacia di tale processo, è l'integrazione dei clan “senza territorio”. Vi sono infatti all'interno del gruppo guraghe, tre clan, newara, geza e fuga, che non detengono diritti sulla terra, non hanno diritti di proprietà e sono quindi al gradino più basso della scala sociale. La loro origine non è certa e non vi è neanche una sufficiente definizione del loro status, essi si sono specializzati in lavori artigiani, normalmente disprezzati, e sono oggi fabbri, ebanisti e conciatori. Non avendo diritti sulla terra, essi sono costretti ad abitare presso famiglie di altri clan o a muoversi continuamente, ma nel contesto urbano e con l'avvento delle economia di mercato, essi hanno trovato una nuova collocazione, entrando nel processo di compravendita e rifornendo i mercati locali e regionali con i loro prodotti, e hanno guadagnato un nuovo e importante ruolo nella società. La ricerca e il metodo con cui è stata effettuata sono spiegati chiaramente fin dall'inizio, con una preziosa testimonianza di un Guraghe che ha potuto assistere l'antropologo nel suo lavoro. È proprio l'alta presenza di queste testimonianze “vive”, tra cui i termini indicati nella lingua originale e le immagini per descrivere i concetti esplicati, che permettono la facile comprensione del testo, e la sua accessibilità, rendendolo una lettura esaustiva e di grande spessore scientifico. Il modo chiaro con cui Palmisano spiega la sua ricerca e il suo focalizzarsi sulla particolarità del caso, lasciano aperto il campo ad ulteriori riflessioni e comparazioni. Il capitolo quinto tratta del ruolo dell'occupazione italiana durante il ventennio fascista. Questo evento viene visto dagli italiani come un'anacronistica sconfitta, e rende quindi ancor più interessante il ruolo che gli italiani stessi, forse inconsapevolmente, hanno avuto agli occhi degli Etiopi. L'occupazione italiana degli anni Trenta ha rappresentato per questa etnia una straordinaria occasione di riscatto ed emancipazione: infatti la ridistribuzione delle terre ha permesso l'implementazione della coltivazione dell'ensete; l'introduzione del wage labour ha stimolato le migrazioni verso la capitale in vista di guadagni addizionali; e infine la trasformazione di Addis Ababa in una città economicamente moderna, in contemporanea all'avvento di un'amministrazione statuale, pone la capitale con il suo nuovo e grande “ mercato”, al centro degli scambi di tutta l'Africa Orientale. Dati di esperienze di ricerca su questo ambito non sono ancora stati pubblicati, ma è certo che i Guraghe confermano anche qui la loro eccezionalità, ed è certamente interessante questo diverso punto di vista che interpreta il colonialismo come risorsa sociale e politica Lo studio di questa società diventa gradualmente uno studio dinamico e politico, mirato ad analizzarne non solo i principi che ne regolano l'organizzazione ma anche le pratiche, le strategie e le opportunità che ne sono derivate e la loro evoluzione dalla forma tradizionale di un tempo a quella attuale, rivista ed adattata alle problematiche e alle sfide della contemporaneità in Africa. L'antropologo riesce quindi a descrivere con efficacia il processo attraverso il quale questa società si è sviluppata, rimanendo forte della sua struttura fondamentale, la coltivazione dell'ensete, che è diventata da attività di pura sussistenza, senza domanda sul mercato, a produzione non più indispensabile per la sopravvivenza ma rituale e carica di significati culturali ed economici, fondamentali per l'identità stessa dei Guraghe e la loro continua ridefinizione in questa attualità in continuo cambiamento.
I Guraghe dell'Etiopia. Lineamenti etnografici di un'etnia di successo
PALMISANO, Antonio Luigi
2008-01-01
Abstract
Questa monografia etnografica mette a fuoco la forte identità del gruppo etnico dei Guraghe dell'Etiopia e il loro rapporto con la coltivazione dell'asat, ensete. Nei primi capitoli la coltivazione dell'ensete è definita come specificità fondante dell'identità guraghe e come strategia vincente che, implicando determinati processi ed una determinata struttura familiare, sociale e politica, permette tutt'oggi l'adattamento ai cambiamenti e il mantenimento degli usi e delle radici culturali nonostante le discriminazioni, le migrazioni forzate e la perdita dei terreni, a cui questo gruppo etnico fu sottoposto fin dal XIII secolo. L'ensete, o falso banano, coltivazione dell'altopiano etiope, richiede costante cura, che viene svolta dalle donne e dai bambini, e pesante lavoro periodico concentrato nella stagione secca, da dicembre a febbraio circa, svolto dagli uomini. Sono inoltre sempre le donne, spesso collaborando fra loro, a compiere le lunghe ed elaborate pratiche rituali per rendere commestibile l'ensete. Ciò garantisce una suddivisione abbastanza netta dei compiti all'interno della famiglia, o abarus, del villaggio, enfocha, e addirittura dell'intero clan, detto t'ib, e fa sì che gli uomini durante il resto dell'anno, da marzo a novembre, non abbiano compiti specifici, permettendo loro di spostarsi anche per lunghi periodi, senza che la produzione ne sia compromessa. Si assiste così a migrazioni, per la maggior parte stagionali, verso le città, prima fra tutte Addis Ababa, in cerca di lavori remunerativi, divenuti sempre più necessari poiché la lavorazione dell'ensete è solamente di sussistenza. Queste migrazioni sono quindi legate contemporaneamente sia alla necessità sia all’opportunità di uscire dal villaggio, ma i fano, gli immigrati, mantengono sempre un legame molto forte di solidarietà con la famiglia rimasta in campagna e le rimesse che inviano permettono loro di tornare e di essere sempre ben accolti. Nei capitoli terzo e quinto, Palmisano affronta le tappe del processo migratorio, iniziando dalla storia della regione, col susseguirsi di tentativi di controllo imperiale fino all'invasione amharica del 1889 che ha segnato l'inizio delle deportazioni. Iniziate forzatamente a causa del potere imperiale e delle invasioni cuscitiche, le migrazioni hanno spinto i Guraghe verso l'altipiano etiopico e poi più a nord, in un processo di espansione degli insediamenti, poi trasformatosi nell'attuale processo migratorio, con il mutamento delle dinamiche economiche e statali. Oggi, nella maggior parte, si tratta di spostamenti che originati per vendere la pura forza lavoro, hanno portato ad una sempre maggiore integrazione nella struttura economica, inserendosi nel commercio diretto e nell'importazione, fino ad arrivare a livello nazionale. Palmisano sottolinea poi l'altro punto fondamentale della società guraghe, sempre legato alle dinamiche prodotte dalle migrazioni, cioè il legame con il territorio. L'avere una casa, e quindi un terreno, coincide con la coltivazione e gestione dell'ensete che permette la sussistenza della famiglia stessa, rendendo quindi la “proprietà” di un terreno fondamentale per ogni nucleo familiare, nonostante la proprietà privata non sia concepita come nelle società occidentali: infatti all'estinzione della famiglia che ne ha l'usufrutto, il lotto torna di proprietà del t'ib. Così la città si presenta come un “non-luogo”, mentre è il t'ib stesso, così come lo yejoka (principale consiglio amministrativo e giuridico), ad essere visto come un luogo. Palmisano esplica così la modalità con cui le istituzioni guraghe, essendo istituzioni che ordinano il mondo nello spazio e nel tempo, sono state trasportate nelle città dove i Guraghe sono migrati, rendendole così luoghi abitabili. E' stata poi la capacità di fornire una “risposta flessibile” che ha fatto sì che siano state funzionali anche in quei luoghi così diversi dai luoghi in cui sono stati concepiti. Questa forte appartenenza, aggiunta alla volontà e alla forte determinazione caratteristiche di questo gruppo etnico, ha permesso loro di riprodurre con successo la loro struttura sociale e politica facendoli integrare nel mutato contesto economico, facendo da stabile base per le relazioni col mondo esterno e includendoli nel circuito di mercato e nei processi di costruzione attiva dello Stato. L'esempio più esplicativo portato dall'Autore sulla stabilità di tale struttura e sull'efficacia di tale processo, è l'integrazione dei clan “senza territorio”. Vi sono infatti all'interno del gruppo guraghe, tre clan, newara, geza e fuga, che non detengono diritti sulla terra, non hanno diritti di proprietà e sono quindi al gradino più basso della scala sociale. La loro origine non è certa e non vi è neanche una sufficiente definizione del loro status, essi si sono specializzati in lavori artigiani, normalmente disprezzati, e sono oggi fabbri, ebanisti e conciatori. Non avendo diritti sulla terra, essi sono costretti ad abitare presso famiglie di altri clan o a muoversi continuamente, ma nel contesto urbano e con l'avvento delle economia di mercato, essi hanno trovato una nuova collocazione, entrando nel processo di compravendita e rifornendo i mercati locali e regionali con i loro prodotti, e hanno guadagnato un nuovo e importante ruolo nella società. La ricerca e il metodo con cui è stata effettuata sono spiegati chiaramente fin dall'inizio, con una preziosa testimonianza di un Guraghe che ha potuto assistere l'antropologo nel suo lavoro. È proprio l'alta presenza di queste testimonianze “vive”, tra cui i termini indicati nella lingua originale e le immagini per descrivere i concetti esplicati, che permettono la facile comprensione del testo, e la sua accessibilità, rendendolo una lettura esaustiva e di grande spessore scientifico. Il modo chiaro con cui Palmisano spiega la sua ricerca e il suo focalizzarsi sulla particolarità del caso, lasciano aperto il campo ad ulteriori riflessioni e comparazioni. Il capitolo quinto tratta del ruolo dell'occupazione italiana durante il ventennio fascista. Questo evento viene visto dagli italiani come un'anacronistica sconfitta, e rende quindi ancor più interessante il ruolo che gli italiani stessi, forse inconsapevolmente, hanno avuto agli occhi degli Etiopi. L'occupazione italiana degli anni Trenta ha rappresentato per questa etnia una straordinaria occasione di riscatto ed emancipazione: infatti la ridistribuzione delle terre ha permesso l'implementazione della coltivazione dell'ensete; l'introduzione del wage labour ha stimolato le migrazioni verso la capitale in vista di guadagni addizionali; e infine la trasformazione di Addis Ababa in una città economicamente moderna, in contemporanea all'avvento di un'amministrazione statuale, pone la capitale con il suo nuovo e grande “ mercato”, al centro degli scambi di tutta l'Africa Orientale. Dati di esperienze di ricerca su questo ambito non sono ancora stati pubblicati, ma è certo che i Guraghe confermano anche qui la loro eccezionalità, ed è certamente interessante questo diverso punto di vista che interpreta il colonialismo come risorsa sociale e politica Lo studio di questa società diventa gradualmente uno studio dinamico e politico, mirato ad analizzarne non solo i principi che ne regolano l'organizzazione ma anche le pratiche, le strategie e le opportunità che ne sono derivate e la loro evoluzione dalla forma tradizionale di un tempo a quella attuale, rivista ed adattata alle problematiche e alle sfide della contemporaneità in Africa. L'antropologo riesce quindi a descrivere con efficacia il processo attraverso il quale questa società si è sviluppata, rimanendo forte della sua struttura fondamentale, la coltivazione dell'ensete, che è diventata da attività di pura sussistenza, senza domanda sul mercato, a produzione non più indispensabile per la sopravvivenza ma rituale e carica di significati culturali ed economici, fondamentali per l'identità stessa dei Guraghe e la loro continua ridefinizione in questa attualità in continuo cambiamento.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.