Il ruolo dei beni pubblici, nel contesto dell’attività amministrativa, ha conosciuto un sensibile processo di ripensamento: tradizionalmente intesi quali strumenti funzionali agli obiettivi d’interesse pubblico, in seguito all’adesione dell’Italia all’UE ed alla necessità di rispettare i vincoli di bilancio i beni pubblici sono stati considerati come fonte di reddito o, comunque, quale strumento di perseguimento di una più efficace politica economica. Questo processo di ripensamento s’inscrive in un più ampio movimento riformistico, caratterizzato dal tentativo d’importare in ambito pubblico logiche e strumenti propri del diritto comune (o addirittura istituti nati in altri ordinamenti, su tutti quello anglosassone) conformandoli però alle esigenze del diritto pubblico (si pensi alla cartolarizzazione o alla categoria degli “enti pubblici a struttura societaria” coniata dal diritto pretorio degli anni ‘90). Il tentativo d’innestare il principio autoritativo (tipico del nostro ordinamento pubblicistico) sugli ordinari schemi negoziali del diritto privato (e commerciale) equivale però alla totale negazione della logica consensualistica su cui quegli schemi poggiano: a fronte di tali problemi, il legislatore ha reagito formando un corpus normativo ad hoc. L’analisi di queste norme – e dei problemi sistematici da esse posti – rivela però che l’iniziale intendimento della p.A. di trasferire l’esercizio di funzioni proprie a favore di soggetti privati è stato totalmente disatteso. Infatti, l’Amministrazione continua a svolgere direttamente quelle funzioni, sia pur assumendo una nuova veste formale (società di capitali): con il risultato che non di privatizzazione (formale o sostanziale, poco importa) di pubbliche funzioni si può parlare quanto, al contrario, di pubblicizzazione di istituti giuridici privati.

Diritto comune e obblighi di servizio pubblico nella gestione e valorizzazione della proprietà immobiliare pubblica

PORTALURI, Pier Luigi
2007-01-01

Abstract

Il ruolo dei beni pubblici, nel contesto dell’attività amministrativa, ha conosciuto un sensibile processo di ripensamento: tradizionalmente intesi quali strumenti funzionali agli obiettivi d’interesse pubblico, in seguito all’adesione dell’Italia all’UE ed alla necessità di rispettare i vincoli di bilancio i beni pubblici sono stati considerati come fonte di reddito o, comunque, quale strumento di perseguimento di una più efficace politica economica. Questo processo di ripensamento s’inscrive in un più ampio movimento riformistico, caratterizzato dal tentativo d’importare in ambito pubblico logiche e strumenti propri del diritto comune (o addirittura istituti nati in altri ordinamenti, su tutti quello anglosassone) conformandoli però alle esigenze del diritto pubblico (si pensi alla cartolarizzazione o alla categoria degli “enti pubblici a struttura societaria” coniata dal diritto pretorio degli anni ‘90). Il tentativo d’innestare il principio autoritativo (tipico del nostro ordinamento pubblicistico) sugli ordinari schemi negoziali del diritto privato (e commerciale) equivale però alla totale negazione della logica consensualistica su cui quegli schemi poggiano: a fronte di tali problemi, il legislatore ha reagito formando un corpus normativo ad hoc. L’analisi di queste norme – e dei problemi sistematici da esse posti – rivela però che l’iniziale intendimento della p.A. di trasferire l’esercizio di funzioni proprie a favore di soggetti privati è stato totalmente disatteso. Infatti, l’Amministrazione continua a svolgere direttamente quelle funzioni, sia pur assumendo una nuova veste formale (società di capitali): con il risultato che non di privatizzazione (formale o sostanziale, poco importa) di pubbliche funzioni si può parlare quanto, al contrario, di pubblicizzazione di istituti giuridici privati.
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