Negli ultimi tre decenni, il decentramento produttivo e territoriale ha generato ulteriori disparità tra l’industria meridionale e quella del resto d’Italia. Le recenti modifiche introdotte nelle norme che regolano il mercato del lavoro, in assenza di adeguati ammortizzatori sociali, sembrano in grado di produrre nuove più profonde differenze in termini di opportunità occupazionali e di qualità del lavoro. Nel paper si fa cenno agli effetti del decentramento sull’industria delle regioni meridionali, dove il trasferimento delle produzioni più mature e tradizionalmente più povere ha favorito l’attecchimento di modalità organizzative strettamente connesse con forme di lavoro irregolare. Si evidenzia come, nei confronti di queste ultime, le politiche abbiano assunto una posizione incerta, cercando di contemperare la necessità di non rinunciare del tutto alla “flessibilità” che esse consentono e l’utilità sociale che deriverebbe dalla loro eliminazione. Se la flessibilità organizzativa trasferiva una parte del rischio dalla grande alla piccola impresa, le “nuove” flessibilità la trasferiscono sui lavoratori, riducendo le tutele loro garantite dalla precedente normativa: alla precarietà del “sommerso” si sostituisce quella, legalizzata, del “temporaneo”.

Vecchie e nuove flessibilità dell’industria manifatturiera italiana: le conseguenze per il meridione

DE RUBERTIS, Stefano
2006-01-01

Abstract

Negli ultimi tre decenni, il decentramento produttivo e territoriale ha generato ulteriori disparità tra l’industria meridionale e quella del resto d’Italia. Le recenti modifiche introdotte nelle norme che regolano il mercato del lavoro, in assenza di adeguati ammortizzatori sociali, sembrano in grado di produrre nuove più profonde differenze in termini di opportunità occupazionali e di qualità del lavoro. Nel paper si fa cenno agli effetti del decentramento sull’industria delle regioni meridionali, dove il trasferimento delle produzioni più mature e tradizionalmente più povere ha favorito l’attecchimento di modalità organizzative strettamente connesse con forme di lavoro irregolare. Si evidenzia come, nei confronti di queste ultime, le politiche abbiano assunto una posizione incerta, cercando di contemperare la necessità di non rinunciare del tutto alla “flessibilità” che esse consentono e l’utilità sociale che deriverebbe dalla loro eliminazione. Se la flessibilità organizzativa trasferiva una parte del rischio dalla grande alla piccola impresa, le “nuove” flessibilità la trasferiscono sui lavoratori, riducendo le tutele loro garantite dalla precedente normativa: alla precarietà del “sommerso” si sostituisce quella, legalizzata, del “temporaneo”.
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