Il tema centrale del saggio è lo studio dei processi di trasformazione che hanno investito la nobiltà meridionale tra XIX e XX secolo. Osservatorio privilegiato dell’analisi è la dinastia ducale dei Caracciolo-de' Sangro, nata dalla fusione, in seguito a particolari vicende matrimoniali e successorie, di due famiglie dell’aristocrazia napoletana d’origine feudale, prestigiose per ricchezza, potere economico, rilevanza sociale e radicate nell’antica provincia di Terra d’Otranto. La base scientifica dell’indagine, che si sta avvalendo della documentazione conservata nell’Archivio Caracciolo de’Sangro (presso la biblioteca comunale di Martina Franca), uno tra i più importanti, antichi e cospicui archivi di famiglia oggi esistenti in Puglia e per la parte contemporanea praticamente inedito, è la produzione storiografica degli ultimi anni sul Mezzogiorno; letteratura che è frutto di un’intensa attività di ricerca, empirica e dettagliata, prosopografica e microstorica, mossa dall’esigenza prevalente di definire la «fisionomia materiale» dei soggetti storici che hanno originato, sospinto o condizionato i cambiamenti in atto nel Sud d’Italia dal tramonto dell’ancien régime al secondo dopoguerra. In questi nuovi lavori, tuttavia, le tematiche che riguardano i caratteri e i limiti dello sviluppo socio-economico del Mezzogiorno, o le sue trasformazioni ed i suoi processi politico-amministrativi, hanno finito con il convergere quasi esclusivamente su comportamenti, ruoli e funzioni di un’élite borghese, peraltro sociologicamente indefinita, ritenuta, nel bene o nel male, la protagonista indiscussa della storia meridionale in età contemporanea. Al contrario, la poca attenzione che gli studiosi hanno prestato alla nobiltà del Mezzogiorno come oggetto d’analisi storica, ha reso questo gruppo sociale un argomento marginale nei due «generi guida» (storie di famiglia d’élite e classi dirigenti) della nuova storiografia meridionalistica rispetto all’ipertrofica presenza di quello borghese. Se da un lato, dunque, alla nobiltà (ma il discorso vale anche, ed a maggior ragione, per la borghesia), nonostante la sua natura, per definizione, di «classe superiore», non si può attribuire a priori e de iure l’appartenenza né all’élite, cioè al gruppo sociale che detiene il potere materiale e simbolico, né alla classe dirigente, cioè al raggruppamento che possedendo quei poteri influisce in maniera determinante sulla vita sociale, economica e politica della collettività, dall’altro la storiografia ha eluso il problema se la nobiltà rientri poi de facto nelle categorie di élite e di classe dirigente; condizione che soltanto la concretezza dell’indagine storica può appurare. Del resto, secondo autorevoli studiosi, la storiografia contemporaneistica e meridionalistica, nonostante la mancanza di un quadro assestato di conoscenze, ha operato una vera e propria «rimozione» della nobiltà come oggetto di analisi storica: considerata l’espressione più significativa dell’arretratezza e dell’immobilismo del Sud d’Italia e giudicata «scarsamente credibile anche come semplice coprotagonista» della storia meridionale otto-novecentesca, la nobiltà è stata aprioristicamente isolata in una lenta e distaccata agonia sociale, economica e politica, oppure ingabbiata nel ruolo di un ingombrante residuo d’ancien régime. Questo saggio non intende riabilitare in qualche modo l’aristocrazia meridionale né ha finalità revisionistiche che operino surrettiziamente sensazionali correzioni a “certi difetti” di modernità e civiltà imputabili allo specifico della sua vicenda e di quella del Mezzogiorno in generale; ma muove dall’esigenza di dare un contributo, attraverso uno «studio di caso», alla comprensione più approfondita dei ruoli e delle funzioni che la nobiltà ha ricoperto nella storia contemporanea del Sud d’Italia.

Famiglia e patrimonio nobiliare nel Mezzogiorno dell'Ottocento: i duchi di Martina

ROMANO, Michele
2008-01-01

Abstract

Il tema centrale del saggio è lo studio dei processi di trasformazione che hanno investito la nobiltà meridionale tra XIX e XX secolo. Osservatorio privilegiato dell’analisi è la dinastia ducale dei Caracciolo-de' Sangro, nata dalla fusione, in seguito a particolari vicende matrimoniali e successorie, di due famiglie dell’aristocrazia napoletana d’origine feudale, prestigiose per ricchezza, potere economico, rilevanza sociale e radicate nell’antica provincia di Terra d’Otranto. La base scientifica dell’indagine, che si sta avvalendo della documentazione conservata nell’Archivio Caracciolo de’Sangro (presso la biblioteca comunale di Martina Franca), uno tra i più importanti, antichi e cospicui archivi di famiglia oggi esistenti in Puglia e per la parte contemporanea praticamente inedito, è la produzione storiografica degli ultimi anni sul Mezzogiorno; letteratura che è frutto di un’intensa attività di ricerca, empirica e dettagliata, prosopografica e microstorica, mossa dall’esigenza prevalente di definire la «fisionomia materiale» dei soggetti storici che hanno originato, sospinto o condizionato i cambiamenti in atto nel Sud d’Italia dal tramonto dell’ancien régime al secondo dopoguerra. In questi nuovi lavori, tuttavia, le tematiche che riguardano i caratteri e i limiti dello sviluppo socio-economico del Mezzogiorno, o le sue trasformazioni ed i suoi processi politico-amministrativi, hanno finito con il convergere quasi esclusivamente su comportamenti, ruoli e funzioni di un’élite borghese, peraltro sociologicamente indefinita, ritenuta, nel bene o nel male, la protagonista indiscussa della storia meridionale in età contemporanea. Al contrario, la poca attenzione che gli studiosi hanno prestato alla nobiltà del Mezzogiorno come oggetto d’analisi storica, ha reso questo gruppo sociale un argomento marginale nei due «generi guida» (storie di famiglia d’élite e classi dirigenti) della nuova storiografia meridionalistica rispetto all’ipertrofica presenza di quello borghese. Se da un lato, dunque, alla nobiltà (ma il discorso vale anche, ed a maggior ragione, per la borghesia), nonostante la sua natura, per definizione, di «classe superiore», non si può attribuire a priori e de iure l’appartenenza né all’élite, cioè al gruppo sociale che detiene il potere materiale e simbolico, né alla classe dirigente, cioè al raggruppamento che possedendo quei poteri influisce in maniera determinante sulla vita sociale, economica e politica della collettività, dall’altro la storiografia ha eluso il problema se la nobiltà rientri poi de facto nelle categorie di élite e di classe dirigente; condizione che soltanto la concretezza dell’indagine storica può appurare. Del resto, secondo autorevoli studiosi, la storiografia contemporaneistica e meridionalistica, nonostante la mancanza di un quadro assestato di conoscenze, ha operato una vera e propria «rimozione» della nobiltà come oggetto di analisi storica: considerata l’espressione più significativa dell’arretratezza e dell’immobilismo del Sud d’Italia e giudicata «scarsamente credibile anche come semplice coprotagonista» della storia meridionale otto-novecentesca, la nobiltà è stata aprioristicamente isolata in una lenta e distaccata agonia sociale, economica e politica, oppure ingabbiata nel ruolo di un ingombrante residuo d’ancien régime. Questo saggio non intende riabilitare in qualche modo l’aristocrazia meridionale né ha finalità revisionistiche che operino surrettiziamente sensazionali correzioni a “certi difetti” di modernità e civiltà imputabili allo specifico della sua vicenda e di quella del Mezzogiorno in generale; ma muove dall’esigenza di dare un contributo, attraverso uno «studio di caso», alla comprensione più approfondita dei ruoli e delle funzioni che la nobiltà ha ricoperto nella storia contemporanea del Sud d’Italia.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11587/103614
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